La smania di essere migliore degli altri: Padre Sergij

01.11.2020

"Vi era una debole sorgente d'acqua viva e ora hanno calpestato tutto, è rimasto solo fango"

Il cono dell'ascesa al basso

Russia, 1890. Lev Tolstoj, il celebre scrittore russo, è al culmine della sua popolarità, nel sommo punto di arrivo del suo pensiero antiecclesiastico, prepotentemente eretico, e che trova sfogo in uno dei suoi personaggi più riusciti: Padre Sergij, il ritratto ideale dell'autore, rimasto incompiuto fino al 1898.

Il vero nome di questo personaggio letterario è Stepan Kasatskij, giovane di famiglia altolocata, brillante e intraprendente, capace di eccellere in qualunque cosa faccia, ma che, tuttavia, rimane di tanto in tanto preda di attacchi d'ira che lo mandano fuori controllo e che gli procurano, in diversi momenti, macchie su un'immagine altrui di sé praticamente immacolata. Egli si prefissa un obiettivo, fisso nel tempo, il solo che abbia: autoperfezionarsi, suscitare lodi negli altri ed essere il primus inter pares tra i migliori. Questa sua caratteristica è evidente già dalle prime pagine, quando si arruola nella guardia imperiale di Nicola I, che egli ama incondizionatamente. 

E qui mi fermo su quello che penso sia uno dei tratti fondamentali del personaggio: l'idealizzazione dell'altro, sia esso uomo o divinità. 

In tutto il racconto Stepan riserva questa sua devozione prima allo zar, poi alla promessa sposa, poi al suo maestro spirituale (in russo starets), infine all'idea di diventare Cristo redivivo. Il suo cambio di prospettiva è dettato non tanto da una sua ascesi, quanto dalla sua delusione nei confronti del proprio idolo, se egli crede di amare incondizionatamente il sovrano e la sua fidanzata, ne verrà frustrato quando scoprirà che i due sono stati amanti e che forse, in realtà, quel matrimonio sia una concessione dello zar che non una scelta incondizionata da parte della futura coniuge, Stepan non può accettarlo, per lui vuol dire non essere abbastanza perfetto. 

Venuta meno questa devozione, in lui si accende un'altra smania di perfezione assoluta, su un piano di astrazione maggiore, quella di diventare un santo, uno tra i migliori uomini di chiesa.

Come dice un passo del Vangelo: "lasciate tutto e seguitemi". E il giovane lo fa, non tanto per la vocazione, quanto per dare un esempio, prima che a sé stesso, agli altri. Rinuncia ai suoi beni, prende l'abito e risponde al nome di Sergij.

E arriviamo così al secondo punto: ogni azione compiuta da lui in veste monacale non è un atto disinteressato, ma è solo desiderio di lode e di fama, coperto di un'umiltà che in cuor proprio Sergij sa essere particolarmente fallace. 

Nella prefazione al testo Igor Sibaldi parla di un "cono" seguito nella logica delle scelte di Sergij, un cono che il lettore (e forse anche lo scrittore, all'inizio) si aspettano di trovare alla fine del racconto, un cono che porta a un'indubbia morte del personaggio in odore di santità. E in effetti questo climax comincia con l'ingresso di Sergij in monastero, prosegue con le autoumiliazioni, le preghiere, l'obbedienza dovuta ai superiori e ai confratelli più anziani, un rigore che non fa altro che fruttargli una fama e una lode sempre maggiore, passa poi per la scelta dell'anacoresi, il vivere isolato dal mondo e in perenne preghiera, fino ad acquistare una fama di santo guaritore che attira pellegrini da ogni angolo della Russia. E più la sua fama cresce, più lui è dilaniato da un conflitto interiore, se da un lato si biasima e si sente profondamente in colpa per questo raggiro dall'altro gli sta bene che sia così, salva tante anime mentre la propria si logora.

E qui arriviamo al terzo punto: la tentazione ha su Sergij un effetto pressoché devastante, forse perché è umano, al contrario di quanto voglia far credere. 

Ci sono due episodi che particolarmente portano il personaggio alla distruzione e al dubbio, e sono sempre connessi con un aspetto, quello della sensualità e dei piaceri della carne. Nel primo, una donna si reca nel bosco in cui vive Sergij per una scommessa, per cercare quel che di umano è in lui, per sedurlo, e quasi ci riesce se non fosse che Sergij si mozza un dito con una scure, facendo fuggire lei terrorizzata, riuscendo anche, inconsapevolmente, a farle cambiare condotta di vita. Nel secondo, invece, egli è affascinato dalla figlia di un mercante che gli viene portata per "guarirla dalla nevrastenia" e, anche se Tolstoj non lo scrive, si concede ai piaceri della carne.

Ma questo è troppo per uno come lui, Sergij non ha più dubbi, lascia l'abito e va verso altri luoghi, senza mai trovare sé stesso, vivendo e basta. 

Qui infine, arriviamo al punto finale: la perenne ricerca della perfezione, la mancata capacità di accettarsi, fanno di lui un uomo inquieto e lo fanno cadere sempre nel momento in cui, a quanto pare, riesce a toccarla. 

Da notare è, infine, l'incontro con una vecchia cugina, la cui vita fa comprendere a Sergij Kasatskij cosa vuol dire essere davvero un uomo, prima ancora che un santo, e cioè dare senza chiedere nulla in cambio, senza pensare a una futura santità, compiendo opere di bene rimanendo nell'anonimato e così via.

Tolstoj ha chiuso il suo racconto con un semplice "e adesso vive là", e molte fonti asseriscono che egli avesse paura di riprenderlo, di farlo diventare un romanzo vero e proprio. In appendice ci sono anche delle riflessioni teologiche incompiute, segno evidente che il celebre scrittore russo stava lavorando a un impianto più grande, che tuttavia non ha mai terminato. Ma, nella sua prima espressione, penso che Tolstoj abbia scavato nel fondo di ognuno di noi, sia riuscito a far capire una cosa fondamentale e cioè che spesso, anche se non ce ne accorgiamo, agiamo in modo egoistico, e che le azioni, per quanto piccole siano, non devono essere fatte per la nostra gloria, ma per il bene del prossimo. 

Recensione di "Padre Sergij", di Lev Nikolaevic Toltoj, Edizioni Feltrinelli, 2017.

Argomento: Racconto 

Anno di pubblicazione: 1898





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