Il "Sè" ritrovato: il Cacciatore di Aquiloni

14.06.2020

"Una cosa mi era chiara: uno di noi due doveva andarsene. Forse sarebbe stato meglio così. Avrebbe mitigato la sua sofferenza. E la mia."

Un Paese d'altri tempi

Kabul, anni '70. Tra le strade della capitale afghana due ragazzi, il pashtu Amir e Hassan, figlio del suo servo hazara, fanno volare per l'ultima volta il loro aquilone tra i cieli ventosi di Wazir Akhbar Khan, vincendo così il torneo annuale del quartiere. Qualcosa, tuttavia, è alle porte, non solo la feroce guerra che di lì a breve dilagherà nel Paese in seguito all'invasione sovietica, ma anche un grosso cambiamento nei rapporti tra Amir e Hassan, un cambiamento che parte dallo stupro di Hassan da parte del bullo Assef e dei suoi accoliti a cui Amir assiste senza reagire. 

Mi soffermo un attimo sul primo punto, quello della guerra decennale combattuta tra i mujaeddin e l'Armata Rossa: nel racconto questo evento particolarmente importante per la situazione del Medio Oriente attuale non è approfondita più di tanto, essa bensì compare nella visione di Amir, quel poco che lui può vedere fuggendo insieme a suo padre o sentire dai racconti di coloro che trova al suo ritorno dopo tanti anni. Eppure, questa guerra, iniziata nel 1979 e conclusasi nel 1989 con la ritirata dell'Armata Rossa e della presa del potere da parte dei Talebani, non fu un evento privo di conseguenze, dove le riforme avviate dal Partito Democratico Popolare dell'Afghanistan (allora al governo) che riguardavano la redistribuzione delle proprietà terriere ai contadini poveri, l'abolizione della decima ai latifondisti, la nazionalizzazione delle banche e i piani di alfabetizzazione coadiuvati al divieto di contrarre matrimoni con ragazze minorenni e dall'ingresso delle donne nella vita politica (con il divieto di indossare il burqa) si scontrarono con la dura realtà di un Paese non ancora pronto a un cambiamento radicale. E' inoltre importante specificare, per imprimere imparzialità al discorso, che tali riforme furono condotte in maniera indiscriminata e violenta sulla popolazione, tanto da alienare qualunque possibile simpatia verso il governo. Infine, tanto i russi quanto i talebani perpetrarono azioni di saccheggio e distruzione, arrecando danni immensi al patrimonio culturale di una realtà che aveva attraversato secoli di storia in perenne mutamento, sempre alla ricerca del miglioramento, dove convivevano diverse etnie e che non ha più conosciuto pace nella vita di tutti i giorni.

Parlando del secondo punto, il bullo Assef è l'antagonista, ma anche lui viene filtrato dagli occhi di Amir che ne fa il suo ritratto, eppure credo che sia il personaggio chiave per lo sviluppo dell'intera vicenda: è lui a commettere l'atto criminoso che terrà intrappolato Amir in un limbo ventennale, ed è lui che porrà fine a tale dilaniamento quando il figlio di Hassan, Sohrab, gli scaglierà una biglia in un occhio. Tutto converge su di lui, non ci sarebbe alcuna crescita se i due protagonisti non si incontrassero. Ma chi è Assef? Assef è il figlio di gente benestante (un topos tanto letterario quanto reale), viziato e prepotente, uno a cui non si può dire di no, uno che arriva a non farsi scrupoli pur di ottenere ciò che pretende, facendo del male al prossimo in tutti i modi. Egli è colui che, pur avendo tutto, si schiera in modo ipocrita con gli ultimi, che cavalca le loro frustrazioni per mantenere il suo status di privilegiato. Anche non credendo molto nel pensiero talebano diventa uno dei massimi esponenti del sistema, senza il quale non potrebbe commettere le sue folli atrocità. 

Ma torniamo a noi: l'evento scatenante della trama, l'allontanamento del servo Alì e del figlio saranno il fardello di Amir per buona parte della sua vita, fino al giorno in cui un vecchio conoscente del suo Baba (vezzeggiativo per dire "papà") , il saggio Rahim Khan, richiamerà Amir in Afghanistan alla ricerca di Sohrab, il figlio di Hassan, che si rivelerà come suo nipote. 

E qui cade il primo mito, quello del suo altero e coraggioso Baba, che mai a nessuno, se non a Rahim, ha detto di essere padre di due bambini, Amir, avuto con sua moglie, e Hassan, il bambino che tutti chiamano "servo hazara". Se Amir ha sempre pensato di essere vigliacco, con questa rivelazione capisce da dove viene la sua colpa, proprio dal genitore severo che lui ha sempre ammirato, di cui ha sempre ricercato l'approvazione in modo incessante. E tocca a lui rimediare a ciò.

Amir torna in Afghanistan, e cade il secondo mito, quello del Paese felice che ricordava. Quello che ritrova è un paese arido in molti sensi, distrutto dalle bombe e martoriato dalle violenze dei Talebani sulla popolazione, gli orfani e le esecuzioni sommarie. Sono scene al limite dell'utopia per Amir, lui che ricorda un Paese civile e in armonia. E mi soffermo ancora una volta brevemente su questo punto: c'è la falsa credenza, in Occidente, che quelli siano atti distanti da noi, atti da aborrire, eppure basta un po' di rabbia in più che anche i nostri monumenti facciano la stessa fine dei Buddha di Bamiyan, basta davvero poco perché scatti la giustizia sommaria e la furia iconoclasta, anche qui, nell'Occidente civile. 

Infine, la caduta del terzo e ultimo mito, la sua vigliaccheria: con una grande presa di coraggio e consapevolezza prende Sohrab e fugge verso la salvezza, fugge dalla probabile vendetta di Assef, verso il Pakistan e poi in America. Solo alla fine di queste peripezie e del successivo tentativo di suicidio del nipotino egli capirà che, di base ha vissuto in una grande menzogna, quella dei modelli assoluti, delle verità data per scontate e dei "credo" paterni; tutti mentono, tutti gli hanno mentito sapendo di mentire, e ci ha creduto lui, ci ha creduto Hassan. 

Quando, esauritisi questi tre nuclei fondamentali, Amir si risveglierà, si risveglierà diverso, si risveglierà cresciuto. Per dirla in breve, diventerà un uomo.

Recensione di "Il Cacciatore di Aquiloni", di Khaled Hosseini, Edizioni Piemme, 2004.

Argomento: Romanzo di formazione 

Anno di pubblicazione: 2003


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